Il Maurice ha 30 anni. E ancora non si accontenta

Torino. I «rompiscatole» dello storico circolo lgbt italiano si raccontano. «La battaglia per i diritti di coppie e famiglie va legata a quella contro lo smantellamento dello stato sociale»

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Compie trent’anni un gruppo di «rompiscatole». Così si autodefinisce il Circolo Maurice di Torino, ovvero una delle tessere più preziose del variegato mosaico del movimento lgbt italiano. Un collettivo di persone abituate a disturbare non solo l’ordine etero-normativo, quella «normalità» oppressiva in base alla quale «tutti nascono eterosessuali» e come tali vengono naturalmente educati, ma anche il mainstream (vero o presunto che sia) dello stesso movimento per i diritti civili di gay e lesbiche. Piantagrane, ma non per il gusto di essere bastian contrari: a muovere il collettivo del Maurice, oggi come trent’anni fa, è lo spirito di ricerca, la curiosità verso le infinite differenze, e un istinto di critica verso ogni ingiustizia socialmente prodotta.

Rivisitiamo la storia del circolo insieme a Christian Ballarin, Cristian Lo Iacono e Roberta Padovano, attivisti di differenti generazioni che incontriamo nella sede via Stampatori. Siamo nel pieno centro storico di Torino, al piano terra di un edificio di proprietà comunale rimasto, per ora, al riparo dalla gentrification, il «risanamento» a uso di chi se lo può permettere. «Il Maurice nasce nel difficile periodo della diffusione dell’Aids, che i giornali definivano ‘la peste gay’. In origine è un gruppo informale di soli uomini, quasi tutti ex componenti del Collettivo omosessuale della sinistra rivoluzionaria (Cosr). Poi arriva l’affiliazione ad Arcigay e, nel 1989, la scelta di darsi un nome, ricavato dal film tratto dal romanzo di Edward M. Forster».

L’impegno degli inizi è soprattutto nella difesa dell’identità omosessuale dallo stigma della malattia, ma a orientare l’azione del circolo è anche l’interesse politico verso il femminismo. Che porta all’ingresso di alcune donne, le prime di una componente femminista e lesbica destinata a crescere in fretta, parallelamente all’aumento del protagonismo delle donne all’interno del movimento omosessuale nazionale. Nel quale, però, la condivisione degli stessi spazi regge solo fino al ’96, quando Arcigay e Arcilesbica si separano.

Al Maurice non succede: meglio la mixité. Donne e uomini scelgono di continuare il loro percorso comune, e il circolo esce dal circuito di Arcigay. «Rompemmo con l’associazione nazionale perché volevamo tenere insieme ‘la g e la l’, ma anche in polemica con pratiche troppo verticistiche». Ecco, i (e le) rompiscatole. Che nel frattempo intrecciano il loro cammino con quello del sindacato — la Cgil ma anche i Cobas -, del Comitato di solidarietà con la Palestina, delle lotte contro i Centri di detenzione dei migranti, e dei centri sociali torinesi. Un legame, quest’ultimo, che ancora resta, come testimonia la festa dei trent’anni («pestiferi», ça va sans dire), sabato scorso, ospitata dal csoa Gabrio a Borgo San Paolo, storico quartiere operaio della città.

La stagione dei social forum vede il Maurice presente: Genova, Firenze, Parigi. «Era ed è fondamentale, per noi, lo sguardo glocal, cioè pensare globalmente, ma agire localmente: a Torino in quegli anni otteniamo un piccolo grande risultato, la nascita del servizio lgbt del Comune». All’interno del «movimento dei movimenti» si sviluppa la riflessione intorno al nesso fra soggettività lgbt e neoliberismo. E qui trova spazio l’analisi critica del significato dell’affermazione dei diritti civili. Una causa giusta, naturalmente, ma che porta con sé insidie che non possono essere sottovalutate. «Abbiamo riflettuto molto sulla figura paradigmatica di Pim Fortuyn, il politico liberal-populista olandese capostipite dell’islamofobia europea, assassinato nel 2002 quando mieteva consensi crescenti. Omosessuale, difendeva i diritti lgbt come ‘diritti occidentali’ che contrapponeva al ‘pericolo dell’islamizzazione’: esempio emblematico di ciò che chiamiamo ‘omo-nazionalismo’».

Il rifiuto della strumentalizzazione dei diritti di gay e lesbiche per legittimare politiche discriminatorie nei confronti dei migranti è un tema caro alla filosofa americana Judith Butler, fra le referenti teoriche del Maurice («ma non abbiamo ortodossie»). All’interno del circolo un ricco centro di documentazione testimonia dell’impegno culturale: se si deve usare un’etichetta, l’orientamento è queer, che significa, fra l’altro, non accettare l’immagine della comunità lgbt «appiattita sui nativi e sui loro bisogni». «Il nostro circolo — raccontano gli attivisti — è stato tra i primi a supportare le richieste di asilo di omosessuali migranti, rifiutando però la retorica dell’accoglienza ‘neocoloniale’: noi non diciamo ‘vieni da noi perché nel tuo Paese sono dei barbari’».

La mixité che contraddistingue il Maurice si nutre anche di una forte componente transessuale e transgender, che è venuta nel corso degli anni sempre più aumentando la propria visibilità, ma anche contaminandosi con le altre, come reso evidente dalla recente seconda edizione della Trans Freedom March per le strade torinesi — appuntamento vissuto come proprio da tutto il movimento lgbt riunito nel «Coordinamento Torino pride». Al circolo, il primo spazio di condivisione, al di là dell’assemblea generale, dalla fine degli anni ’90 è la serata del martedì, quella delle donne: «Uno spazio separato ma non separatista, dove le donne trans furono da subito le benvenute, perché la visione ‘essenzialista’ dell’essere donna non ci è mai appartenuta». Uno dei fiori all’occhiello del circolo è lo sportello per le persone trans che necessitano consulenza psicologica, medica o legale, per affrontare la transizione, ma anche i problemi della vita quotidiana.

Cosa vive, oggi, delle origini rivoluzionarie del gruppo? «Ad esempio il non riconoscersi in un’idea astratta dell’identità lgbt: viviamo in un mondo dove ci sono primi ministri dichiaratamente gay, ma il livello di libertà di ciascuna persona omosessuale o trans è condizionato dalle differenze economiche, dal retroterra sociale, dall’essere nativi o migranti». Accenti diversi da quelli di chi, nel movimento, insiste solo sui diritti delle coppie e delle famiglie omo-parentali. «Intendiamoci: è giusto rivendicare il matrimonio egualitario, ma non bisogna fermarsi a quello. Da un lato, occorre mettere in relazione questa battaglia per i diritti di coppie e famiglie con tutte le forme di resistenza allo smantellamento dello stato sociale, perché il rischio è ottenere qualcosa che esiste sulla carta ma, nella realtà, viene cancellato dalle politiche neoliberiste. E dall’altro serve pensare a tutele per relazioni affettive di tipo diverso, praticate nella nostra comunità, che non sono riducibili al modello matrimoniale della coppia ‘unita per sempre’».

Nelle parole degli attivisti si riconosce l’eco del pensiero della differenza: vanno bene i diritti, ma non solo quelli che «rendono uguali». Nessuna paura di venire confusi con i fautori delle unioni civili come «specifica formazione sociale»: «Il problema del ddl Cirinnà, in discussione al Senato, è che crea un istituto ad hoc al solo scopo di non concedere il matrimonio egualitario. Noi invece vogliamo il matrimonio e altre forme di riconoscimento dei nostri legami affettivi e di solidarietà». Difficile accontentarli, questi rompiscatole.

JACOPO ROSATELLI 03 DICEMBRE 2015 Il Manifesto

Comunicato stampa: Un sentenza che cambia la vita alle persone trans e non solo

La sentenza della cassazione sul cambio di genere senza intervento chirurgico per le persone transessuali, rappresenta una vittoria storica, non solo per chi da anni lotta per il riconoscimento di questo diritto, ma per il principio stesso di libertà e autodeterminazione.
Questa sentenza, ottenuta grazie al lavoro di Rete Lenford – Avvocatura per i diritti LGBTI, ci dice chiaramente che, se una persona trans non lo desidera, non può essere obbligata a fare un intervento solo per ottenere un riconoscimento sociale. I corpi non devono pagare il prezzo di una normatività che esige l’ordinamento sociale. Se dobbiamo essere pubblicamente riconoscibili, tramite dei documenti, non è giusto chiedere ai nostri corpi di pagare questo prezzo.
Ora la strada è aperta, per tutti i tribunali che hanno troppe volte interpretato liberticidamente la legge 164/82 e per una nuova legge che tenga conto dei mutamenti dei tempi e delle esigenze reali delle persone trans.
La lotta continua ma abbiamo vinto un’importante battaglia.

Maurice glbtq

APPELLO: Art. 18: I diritti del lavoro sono diritti GLBTQ! Perchè il jobs act ci riguarda

Alle associazioni GLBTQ
A tutte le persone e le realtà interessate

ARTICOLO 18
I diritti del lavoro sono diritti GLBTQ!
Perchè il jobs act ci riguarda

Lo “Statuto dei lavoratori” è tra i frutti di una feconda stagione di mobilitazione sociale, e nella sua finalità di tutelare “la libertà e la dignità dei lavoratori” contribuisce alla realizzazione della promessa di emancipazione contenuta nella Costituzione repubblicana. Nell’anno in cui il Parlamento adottò lo Statuto, il 1970, furono approvati anche l’istituto del divorzio, la legge che disciplina il referendum e l’iniziativa legislativa popolare. Questo dimostra non solo che – come sostiene spesso Stefano Rodotà – sulla Costituzione è possibile fondare un vasto programma di diritti, ma anche che diritti politici, civili e sociali marciano insieme o insieme arretrano.
In questa fase i diritti politici regrediscono – cittadine e cittadini non possono più eleggere direttamente gli organi delle Province e delle Città metropolitane, e lo stesso è previsto nella riforma del Senato – mentre i diritti civili non avanzano, oppure lo fanno solo grazie all’intervento dei tribunali, e i diritti sociali sono oggetto di attacchi illimitati, tanto che persino servizi fondamentali come la sanità e l’istruzione sono ormai sottoposti al vincolo del pareggio di bilancio. Non ci stupisce quindi che anche i diritti di chi lavora, e in particolare lo Statuto dei lavoratori, siano oggi minacciati.

Da anni il Maurice – nel quale sono attivi/e lavoratori/trici, studenti/esse e disoccupati/e, dipendenti e autonomi/e, stabili e precari/e – si interroga sulle nuove identità lavorative e partecipa alle mobilitazioni per contrastare la precarizzazione del mercato del lavoro e affermare la necessità di un welfare universale. Per questo respingiamo al mittente la pretesa del presidente del Consiglio di presentarsi come alfiere di chi non è tutelato/a, da contrapporre a chi è “garantito/a”,  difeso/a da un sindacato conservatore e corporativo.
Non sono stati gli stessi partiti che oggi sostengono la maggioranza di governo, o i loro antenati, ad introdurre le leggi che hanno così drammaticamente segmentato il mercato del lavoro italiano, spesso lungo linee generazionali, come il pacchetto Treu del 1997 o la legge 30 del 2003? Non è stato lo stesso governo Renzi a contribuire ulteriormente al fenomeno, con l’approvazione del decreto Poletti che ha liberalizzato il ricorso ai contratti a tempo determinato, eliminando l’obbligo di causale?
Se una “apartheid” tra garantiti/e e non garantiti/e esiste – anche se non ci piace chiamarla così – questa può essere superata solo cancellando le oltre 40 forme di contratti atipici e quindi estendendo a tutte e tutti le tutele oggi riservate alle lavoratrici e ai lavoratori a tempo indeterminato. L’idea che un livellamento possa essere compiuto verso il basso, cancellando semplicemente le tutele esistenti, è assurda e inaccettabile, e tanto più lo è la pretesa di fondarla su un principio di giustizia sociale. Sarebbe come se i movimenti GLBTQ proponessero di superare la “apartheid” esistente nel campo dei diritti civili cancellando quelli delle persone eterosessuali!

Ci sono molte ragioni per cui, come persone GLBTQ, prendiamo posizione contro la riforma del lavoro proposta dal governo. In primo luogo, ci preoccupa la manomissione delle garanzie contro i licenziamenti illegittimi sancite dall’articolo 18: la legge-delega in discussione al Senato, che lascia al Governo un margine di discrezionalità incomprensibilmente ampio, nulla dice sulla salvaguardia del reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamento discriminatorio. Al contrario, le dichiarazioni di autorevoli esponenti del PD, come Sergio Chiamparino, lasciano intendere che i futuri decreti legislativi potranno modificare il sistema attuale, fondato sull’inversione dell’onere della prova (come impone una direttiva europea, la n. 78 del 2000). Non solo: se anche le attuali tutele contro il licenziamento discriminatorio fossero formalmente conservate, la scomparsa della possibilità del reintegro per le altre forme di licenziamento illegittimo priverebbe l’articolo 18 dell’attuale efficacia deterrente e incoraggerebbe l’esercizio di un potere arbitrario da parte del datore di lavoro. La riforma Fornero, approvata solo due anni fa, ha già indebolito in modo considerevole questa funzione preventiva dell’articolo 18, ma ha lasciato al giudice del lavoro la possibilità di ordinare il reintegro in un numero più limitato di casi. Se questa possibilità fosse cancellata definitivamente, la discriminazione potrebbe facilmente essere nascosta dietro ragioni disciplinari o economiche (i cosiddetti giustificati motivi soggettivo e oggettivo), la cui insussistenza sarebbe punita con un semplice risarcimento monetario. D’altronde sappiamo bene quanto sia difficile per la lavoratrice o il lavoratore che ritiene di essere discriminata/o fornire, come chiede la legge, quegli “elementi di fatto idonei a fondare, in termini gravi, precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori” (Dlgs. 216/2003, art. 4.4, di recepimento della direttiva 78 del 2000). Non sarà un caso che quella che ha colpito l’avv. Carlo Taormina nell’agosto scorso sia stata la prima condanna in Italia per discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, anche se la norma esiste da 11 anni.

Il problema, già rilevante per le persone lesbiche, gay e bisessuali, è ancora maggiore per le persone trans: il decreto legislativo 216/2003, infatti, non comprende l’identità di genere tra i fattori di potenziale discriminazione protetti in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
Vale la pena di ricordare che la rilevanza della discriminazione nei confronti delle persone GLBTQ in ambito lavorativo è dimostrata da numerose indagini. Secondo la LGBT Survey condotta nel 2012 dall’Agenzia europea dei diritti fondamentali, il 20% dei/delle partecipanti italiani, nel corso dell’anno precedente alla ricerca, ha subìto in prima persona episodi di discriminazione nella ricerca di un’occupazione o sul posto di lavoro in ragione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere. Un’indagine svolta dall’ISTAT nel 2011, inoltre, ha rivelato che il 25% degli/lle italiani/e considera legittimi i comportamenti discriminatori nei confronti delle persone trans, il 41% non vuole che una persona omosessuale sia insegnante della scuola primaria e il 28% trova inaccettabile che una persona gay o lesbica sia medico. Il 29,5% delle persone omosessuali intervistate dall’ISTAT, infine, ha riferito di essere stato discriminato nella ricerca di un lavoro e il 22% ha subito una discriminazione sul lavoro.

Ha scritto bene Gianni Ferrara sul Manifesto che l’articolo 18 “libera la lavoratrice e il lavoratore dall’arbitrio del datore di lavoro, quell’arbitrio che, con l’incombenza del licenziamento ad libitum, disporrebbe in assoluto delle condizioni di vita di un essere umano. Libera la lavoratrice ed il lavoratore nel solo modo possibile, quello di condizionare, ridurre il potere del datore di lavoro”. E’, in altre parole, uno strumento essenziale per garantire una “esistenza libera e dignitosa” dentro e fuori i luoghi di lavoro, per affermare l’insopprimibile diritto all’autodeterminazione che abbiamo messo a fondamento del nostro essere movimento.

Per questo ci appelliamo alle altre associazioni del movimento GLBTQ perché prendano la parola insieme a noi, e desideriamo collegarci a tutte le realtà sociali che vorranno combattere l’impianto autoritario della riforma del lavoro.

Invitiamo a sottoscrivere l’appello e/o inviare contributi a [email protected]
o sul blog http://mauricelgbtq.wordpress.com/

MAURICE GLBTQ – Torino
ALA Milano Onlus
Paola Guazzo
Maurizio Cecconi
Eleonora Artesio
Francesca Gruppi
Intersexioni
Ada Donno – Lecce
Michela Balocchi
Tessere l’identità- Alessandria
Gabriele Moroni, Presidente Territoriale ARCI Valle Susa
Officine Corsare Torino
Arcigay
Circolo Pink glbte – Verona
Camera del lavoro Torino

appello.art_.18_0.pdf