Alle associazioni GLBTQ
A tutte le persone e le realtà interessate
ARTICOLO 18
I diritti del lavoro sono diritti GLBTQ!
Perchè il jobs act ci riguarda
Lo “Statuto dei lavoratori” è tra i frutti di una feconda stagione di mobilitazione sociale, e nella sua finalità di tutelare “la libertà e la dignità dei lavoratori” contribuisce alla realizzazione della promessa di emancipazione contenuta nella Costituzione repubblicana. Nell’anno in cui il Parlamento adottò lo Statuto, il 1970, furono approvati anche l’istituto del divorzio, la legge che disciplina il referendum e l’iniziativa legislativa popolare. Questo dimostra non solo che – come sostiene spesso Stefano Rodotà – sulla Costituzione è possibile fondare un vasto programma di diritti, ma anche che diritti politici, civili e sociali marciano insieme o insieme arretrano.
In questa fase i diritti politici regrediscono – cittadine e cittadini non possono più eleggere direttamente gli organi delle Province e delle Città metropolitane, e lo stesso è previsto nella riforma del Senato – mentre i diritti civili non avanzano, oppure lo fanno solo grazie all’intervento dei tribunali, e i diritti sociali sono oggetto di attacchi illimitati, tanto che persino servizi fondamentali come la sanità e l’istruzione sono ormai sottoposti al vincolo del pareggio di bilancio. Non ci stupisce quindi che anche i diritti di chi lavora, e in particolare lo Statuto dei lavoratori, siano oggi minacciati.
Da anni il Maurice – nel quale sono attivi/e lavoratori/trici, studenti/esse e disoccupati/e, dipendenti e autonomi/e, stabili e precari/e – si interroga sulle nuove identità lavorative e partecipa alle mobilitazioni per contrastare la precarizzazione del mercato del lavoro e affermare la necessità di un welfare universale. Per questo respingiamo al mittente la pretesa del presidente del Consiglio di presentarsi come alfiere di chi non è tutelato/a, da contrapporre a chi è “garantito/a”, difeso/a da un sindacato conservatore e corporativo.
Non sono stati gli stessi partiti che oggi sostengono la maggioranza di governo, o i loro antenati, ad introdurre le leggi che hanno così drammaticamente segmentato il mercato del lavoro italiano, spesso lungo linee generazionali, come il pacchetto Treu del 1997 o la legge 30 del 2003? Non è stato lo stesso governo Renzi a contribuire ulteriormente al fenomeno, con l’approvazione del decreto Poletti che ha liberalizzato il ricorso ai contratti a tempo determinato, eliminando l’obbligo di causale?
Se una “apartheid” tra garantiti/e e non garantiti/e esiste – anche se non ci piace chiamarla così – questa può essere superata solo cancellando le oltre 40 forme di contratti atipici e quindi estendendo a tutte e tutti le tutele oggi riservate alle lavoratrici e ai lavoratori a tempo indeterminato. L’idea che un livellamento possa essere compiuto verso il basso, cancellando semplicemente le tutele esistenti, è assurda e inaccettabile, e tanto più lo è la pretesa di fondarla su un principio di giustizia sociale. Sarebbe come se i movimenti GLBTQ proponessero di superare la “apartheid” esistente nel campo dei diritti civili cancellando quelli delle persone eterosessuali!
Ci sono molte ragioni per cui, come persone GLBTQ, prendiamo posizione contro la riforma del lavoro proposta dal governo. In primo luogo, ci preoccupa la manomissione delle garanzie contro i licenziamenti illegittimi sancite dall’articolo 18: la legge-delega in discussione al Senato, che lascia al Governo un margine di discrezionalità incomprensibilmente ampio, nulla dice sulla salvaguardia del reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamento discriminatorio. Al contrario, le dichiarazioni di autorevoli esponenti del PD, come Sergio Chiamparino, lasciano intendere che i futuri decreti legislativi potranno modificare il sistema attuale, fondato sull’inversione dell’onere della prova (come impone una direttiva europea, la n. 78 del 2000). Non solo: se anche le attuali tutele contro il licenziamento discriminatorio fossero formalmente conservate, la scomparsa della possibilità del reintegro per le altre forme di licenziamento illegittimo priverebbe l’articolo 18 dell’attuale efficacia deterrente e incoraggerebbe l’esercizio di un potere arbitrario da parte del datore di lavoro. La riforma Fornero, approvata solo due anni fa, ha già indebolito in modo considerevole questa funzione preventiva dell’articolo 18, ma ha lasciato al giudice del lavoro la possibilità di ordinare il reintegro in un numero più limitato di casi. Se questa possibilità fosse cancellata definitivamente, la discriminazione potrebbe facilmente essere nascosta dietro ragioni disciplinari o economiche (i cosiddetti giustificati motivi soggettivo e oggettivo), la cui insussistenza sarebbe punita con un semplice risarcimento monetario. D’altronde sappiamo bene quanto sia difficile per la lavoratrice o il lavoratore che ritiene di essere discriminata/o fornire, come chiede la legge, quegli “elementi di fatto idonei a fondare, in termini gravi, precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori” (Dlgs. 216/2003, art. 4.4, di recepimento della direttiva 78 del 2000). Non sarà un caso che quella che ha colpito l’avv. Carlo Taormina nell’agosto scorso sia stata la prima condanna in Italia per discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, anche se la norma esiste da 11 anni.
Il problema, già rilevante per le persone lesbiche, gay e bisessuali, è ancora maggiore per le persone trans: il decreto legislativo 216/2003, infatti, non comprende l’identità di genere tra i fattori di potenziale discriminazione protetti in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
Vale la pena di ricordare che la rilevanza della discriminazione nei confronti delle persone GLBTQ in ambito lavorativo è dimostrata da numerose indagini. Secondo la LGBT Survey condotta nel 2012 dall’Agenzia europea dei diritti fondamentali, il 20% dei/delle partecipanti italiani, nel corso dell’anno precedente alla ricerca, ha subìto in prima persona episodi di discriminazione nella ricerca di un’occupazione o sul posto di lavoro in ragione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere. Un’indagine svolta dall’ISTAT nel 2011, inoltre, ha rivelato che il 25% degli/lle italiani/e considera legittimi i comportamenti discriminatori nei confronti delle persone trans, il 41% non vuole che una persona omosessuale sia insegnante della scuola primaria e il 28% trova inaccettabile che una persona gay o lesbica sia medico. Il 29,5% delle persone omosessuali intervistate dall’ISTAT, infine, ha riferito di essere stato discriminato nella ricerca di un lavoro e il 22% ha subito una discriminazione sul lavoro.
Ha scritto bene Gianni Ferrara sul Manifesto che l’articolo 18 “libera la lavoratrice e il lavoratore dall’arbitrio del datore di lavoro, quell’arbitrio che, con l’incombenza del licenziamento ad libitum, disporrebbe in assoluto delle condizioni di vita di un essere umano. Libera la lavoratrice ed il lavoratore nel solo modo possibile, quello di condizionare, ridurre il potere del datore di lavoro”. E’, in altre parole, uno strumento essenziale per garantire una “esistenza libera e dignitosa” dentro e fuori i luoghi di lavoro, per affermare l’insopprimibile diritto all’autodeterminazione che abbiamo messo a fondamento del nostro essere movimento.
Per questo ci appelliamo alle altre associazioni del movimento GLBTQ perché prendano la parola insieme a noi, e desideriamo collegarci a tutte le realtà sociali che vorranno combattere l’impianto autoritario della riforma del lavoro.
Invitiamo a sottoscrivere l’appello e/o inviare contributi a [email protected]
o sul blog http://mauricelgbtq.wordpress.com/
MAURICE GLBTQ – Torino
ALA Milano Onlus
Paola Guazzo
Maurizio Cecconi
Eleonora Artesio
Francesca Gruppi
Intersexioni
Ada Donno – Lecce
Michela Balocchi
Tessere l’identità- Alessandria
Gabriele Moroni, Presidente Territoriale ARCI Valle Susa
Officine Corsare Torino
Arcigay
Circolo Pink glbte – Verona
Camera del lavoro Torino